La programmazione triennale dei Corsi di Laurea
La Fnism stigmatizza la situazione che si sta determinando in sede di programmazione triennale dei Corsi di Laurea nelle Università per effetto della normativa in vigore a firma Gelmini.
Gli Atenei sono infatti chiamati a programmare i Corsi di Studio in base alle proposte delle Strutture Primarie, sorte in sostituzione delle vecchie Facoltà per effetto della Legge di Riforma del Sistema Universitario Nazionale, giunta da poco a compimento.
Nella programmazione si dà rilevanza al parametro numerico in riferimento alla consistenza quantitativa del corpo docente strutturato, mentre si ignora, o comunque si sottovaluta, il dato relativo alla consistenza numerica degli studenti, che costituiscono la principale risorsa rispetto alla quale ogni corso di studio dovrebbe essere legittimato ad esistere.
Di conseguenza:
- Si penalizzano i corsi con pochi docenti strutturati, peraltro in una previsione triennale da presupporre come inattendibile in virtù delle previste immissioni di nuovi professori e ricercatori con carico didattico reclutati a seguito di apposite procedure concorsuali, alcune delle quali, tra l'altro, in fase di espletamento.
- Si premiano, con pesanti conseguenze sul piano erariale, i corsi con un organico di professori esuberante e con pochi studenti (in alcuni casi è addirittura possibile annoverare soltanto una decina di nuovi iscritti per il corrente anno accademico).
- Non si prende invece in considerazione che il fattore determinante, in una fase in cui assumono un rilievo strategico la valutazione (ANVUR) e la necessità di tagli alla spesa pubblica, il vero parametro di riferimento non può che essere quello riconducibile al dato demografico dell’utenza.
Presso l’Università della Basilicata si rischia di dare vita proprio a tale paradosso.
Infatti, nel Dipartimento di Scienze Umane funzionano (e si ipotizza di riprogrammare) Corsi di Studio con pochissimi studenti (e professori a sufficienza), mentre si profilano ipotesi inaccettabili per il nuovo Corso di Studio a ciclo unico quinquennale in Scienze della Formazione Primaria, che annovera un elevato numero di studenti, tanto che per quest’anno la selezione, che ha riguardato circa 400 aspiranti, è sfociata nella completa copertura dei 120 posti assegnati dal Decreto Ministeriale per il numero chiuso.
Vi è da considerare che, giacché i professori “esponibili” sono soltanto cinque, vengono ipotizzate decisioni inammissibili come quella di dare vita ad un Corso di Studio inter-ateneo a livello inter-regionale con l’Università di Lecce, ignorando che la Legge istitutiva del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria ha sancito la regionalità di suddetti corsi ed è per questo che ne esiste solo uno in ogni regione.
Di contro, la configurazione di inter-ateneo ha riguardato unicamente possibili raccordi (e accordi) a livello intra-regionale, laddove essi sono stati finora realizzati.
Risulta praticabile, invece, l’ipotesi di un corso di studio a livello inter-strutturale (inter-dipartimentale) facendo leva sui settori scientifico-disciplinari dello stesso Ateneo coerenti rispetto agli insegnamenti del corso di studio in parola.
Il Consiglio Nazionale della Fnism esprime la propria fiducia sull’azione di stimolo e di controllo del Ministro Carrozza, dei Rettori e degli Organi preposti, al fine di garantire un’efficace programmazione che coniughi le esigenze di contenimento della spesa e la razionalizzazione delle risorse professionali esistenti nell’interesse primario di una formazione adeguata delle giovani generazioni.
10-11-2013

 
Quando diverso e' bello
E' un fatto che alla scuola elementare di Corti, frazione di Costa Volpino, Bergamo,genitori italiani hanno ritirato i loro figli dalla prima elementare dove la maggioranza degli iscritti era costituita da bambini stranieri. E' stata una scelta dettata da razzismo? Alcuni dei genitori che hanno "ritirato" i loro figli fanno riferimento alla mancanza di certezze sulla continuita' del servizio per l'intero corso di studi.
E gia' questo crea rammarico perché tra accorpamenti di istituti scolastici e razionalizzazioni della rete scompaiono le piccole scuole che, con la chiesa, il municipio e la caserma delle forze dell'ordine, hanno da sempre costituito la roccaforte dell'identita' civica del paese anche piu' piccolo e che, rispetto alla presenza di immigrati, potrebbero essere utilizzate come focolai di integrazione linguistica e culturale e dunque di acquisizione di cittadinanza rispetto al Paese di accoglienza anche per gli adulti.
Nell'istituto comprensivo di Corti, dopo il ritiro dei bambini italiani, l'unica classe prima sara' formata da 14 alunni stranieri: romeni, marocchini, bosniaci, croati, albanesi e questo ha fatto scattare l'accusa di razzismo.
Le reazioni dell'opinione pubblica sono state forti, dalla viscerale difesa del diritto alla qualita' dell'istruzione senza rallentamenti nei programmi imposti da alunni con problemi di lingua o con precedenti percorsi scolastici accidentati fino alla decisa affermazione "diversi e' bello". Prendiamo l'occasione per soffermarci proprio su questo aspetto.
Quando "diverso e' bello"? Quando le diversita' costituiscono una sfida cui si risponde forzando quanto di rigido ancora caratterizza il nostro sistema scolastico sia nell'organizzazione sia nella cultura che la pervade. Basti pensare al decreto Gelmini sul "tetto" del 30% alla presenza di alunni stranieri per classe, quando non si puo' parlare di studenti stranieri senza fare distinzioni tra chi e' nato in Italia, chi ci vive da tanti anni e non ha problemi ne' linguistici ne' rispetto ai contenuti e chi è arrivato da poco e ha bisogno di una fase di inserimento e di rafforzamento linguistico.
Le esperienze positive sono ormai numerose, ciascuna con proprie specificita' e riguardano sia i bambini "non italiani" (una dicitura assolutamente insufficiente) sia i bambini italiani destinati a vivere in una societa' plurale.
La multietnicita' tra i banchi e' ormai la normalita':i dati del ministero dell'Istruzione per l'anno 2013/2014 ci dicono che gli alunni di cittadinanza straniera sono 736.654, su un totale di 7.878.661 studenti. Molte scuole ne hanno preso atto e si sono attrezzate realizzando esperienze di grande interesse che hanno mirato a rafforzare le competenze linguistiche di chi aveva problemi, hanno creato occasioni di approfondimento delle conoscenze anche rispetto ai paesi di provenienza dei bambini, si sono occupate anche delle famiglie in cui essi vivono, favorendone l'integrazione culturale e in ogni caso evitando che queste differenze costituiscano un hadicap. Ma quella che manca ancora e' la certezza che tutte le scuole sappiano far fronte alla sfida, troppi tagli all'istruzione hanno bloccato le iniziative e impedito di lavorare e sperimentare per trasformare la diversita' in ricchezza.
18-09-2013

 
Aria nuova per la scuola
Prendiamo atto con soddisfazione delle scelte fatte per la scuola nel pacchetto "L'Istruzione riparte" inserito nel Decreto Scuola. Da troppo tempo ormai sentivamo coniugare altisonanti affermazioni di principio sul valore della cultura e sul ruolo dell'istruzione per il rilancio economico del nostro Paese regolarmente seguite da interventi di taglio agli investimenti. Il decreto costituisce invece un segnale importante in quanto interviene su aspetti che incidono sull'efficacia del sistema seppure con tutti i limiti della situazione attuale. In particolare sara' definito un piano triennale per l'immissione in ruolo del personale docente, educativo ed ATA- negli anni scolastici 2014/2016 e, per garantire continuita' di insegnanti agli alunni disabili, viene autorizzata l'assunzione a tempo indeterminato di oltre 26.000 docenti di sostegno.
Quanto ai libri di testo, ci si muove su una logica che abbina il risparmio all'innovazione l'adozione dei testi scolastici diventa facoltativa; i docenti potranno decidere di sostituirli con altri materiali confermando così ipotesi da tempo in discussione.
Troviamo anche misure volte a favorire il welfare studentesco (borse per trasporti e mensa, accesso al wireless a scuola), misure per contrastare la dispersione scolastica, per recuperare il ruolo dell'orientamento, oltre a investimenti sulla formazione dei docenti.
Naturalmente sia per l'entita' degli stanziamenti sia per i tempi previsti e per la quantita' dei problemi aperti, questo a' solo un avvio. Altri interventi dovranno essere realizzati in tempi brevi, a partire dalla ridefinizione degli Istituti Tecnici e Professionali che con i nuovi piani di studio vedono rafforzate le materie teoriche mentre non vengono potenziati i laboratori e i rapporti con il mondo del lavoro, un nodo difficile e delicato del nostro sistema scolastico e formativo, da sempre poco collegato alla cultura del mondo del lavoro.
Pur con tutti i limiti che possono essere rilevati, diamo atto alla ministra di essersi davvero impegnata per riportare l'istruzione al centro dell'agenda politica,come lei stessa aveva dichiarato.
Da troppo tempo scuola, universita' e ricerca sono stati il centro solo di tagli e riduzioni.
Consideriamo quindi questo decreto come un segnale di inversione di tendenza, un richiamo a guardare alla scuola come ad un investimento e non ad una spesa e gia' questo determina quel clima politico positivo cui il sottosegretario Rossi Doria, in un'intervista a La Stampa, attribuisce un forte rilievo.
Infine, rileviamo come sia anche questo un modo per attuare la Costituzione che fa del diritto allo studio un cardine del sistema democratico.
Speriamo che nuove perturbazioni di una perversa meteorologia politica non ci riportino indietro.
10-09-2013

 
Morire di silenzio
Ci sono cose che devono essere fatte per migliorare la vita delle persone ma che si stentano a fare. Cosi' leggi che sanciscano il rifiuto dell'omofobia e mettano al bando comportamenti improntati all'istigazione all'odio e alla violenza. Leggi sulle quali sembra esserci un accordo diffuso ma che restano ancora solo all'orizzonte.
Ci sono cose che devono essere dette e trasformarsi in comportamenti e relazioni che aiutino a infrangere tabu' superati e permettano alle persone di essere se stesse, nel rispetto di tutte le diversità individuali a condizione che si collochino in un contesto di responsabilita' collettive e di regole condivise.
Deve diventare realta' quell'eguaglianza dei diritti cui fa riferimento la Costituzione all'art.3 "senza distinzione di sesso, di razza, di lingua" che forse troppi dei nostri concittadini non hanno ancora recepito.
Continuano invece ad esserci troppe cose che non si vogliono vedere o dire e allora prevale l'acquiescenza rispetto a un sistema dove gli stereotipi alimentano le false certezze e il conformismo, barattato per una rassicurante normalita', diventa un mito da salvaguardare ad ogni costo.
Ma c'e' un luogo, in particolare, che non puo' arrendersi a questi comportamenti ed e' la scuola, dove le nuove generazioni vivono il difficile percorso di costruzione della propria identita' personale e sociale che li trasforma in persone adulte. Un luogo in cui, piu' che nell'ambito della famiglia, ci si confronta con i tanti modi in cui vivere la propria appartenenza di genere. Ma la scuola troppo spesso non vede, non sente, non parla, incapace di rapportarsi alle persone e ai loro problemi. E non basta coprire questi vuoti spostando l'asticella sul magico trittico delle conoscenze - competenze - abilita' o parlare di successo formativo.
"Il soggetto, ragazzi, non dimentichiamo il soggetto" diceva l'insegnante che in tempi ormai lontani ci guidava nei meandri dell'analisi logica.
12-08-2013

 
L'incendio del Liceo Socrate
Fanno molto male le immagini di banchi bruciati, pareti annerite, cavi elettrici divelti di una scuola distrutta da un incendio doloso. Fanno male quei resti di uova marce lanciate contro le pareti e le scritte vandaliche.
E' grave se si tratta di un attacco all'istituzione scuola, perché come ci ricorda Malala Yousafzai, vittima della battaglia dell'estremismo islamico contro l'istruzione "Un bambino, un insegnante, una penna e un libro possono cambiare il mondo". La scuola è un baluardo contro l'imbarbarimento e la regressione, è un presidio culturale e di civiltà.
E' grave anche se è frutto di un atto vandalico da parte di soggetti che individuano in una determinata scuola un luogo sentito come nemico, secondo una visione politica incentrata pregiudizialmente sugli schieramenti opposti e si sentono in dovere di lanciare messaggi intimidatori.
Ma queste immagini fanno male anche se sono espressione dell'odio che nasce dal malessere e dal disagio di singole persone fragili di cui la scuola non ha saputo intercettare i bisogni più profondi aprendo il varco alla loro rabbia e alla loro volontà di distruzione.
Non sappiamo quali dinamiche ci siano dietro l'incendio del Liceo Socrate, un istituto romano da tempo impegnato oltre sul fronte dell'innovazione e della didattica anche ad affrontare tematiche difficili con cui i giovani si confrontano, a partire dai temi dell'identità di genere e dell'omosessualità.
In quelle aule abbiamo incontrato studentesse e studenti, insegnanti, dirigenti interessati non tanto a trovare facili soluzioni ma disposti a discutere, a confrontarsi, ad analizzare i problemi. Una scuola che prova a non cedere al conformismo e trae vitalità dal contesto sociale in cui è inserita, dove non mancano contraddizioni e problemi. Una scuola che dialoga con le strutture pubbliche e con l'amministrazione e ne ottiene anche il sostegno e la collaborazione.
A questo tipo di scuola va tutta la solidarietà della Fnism nella difficile strada del dialogo con i giovani e nell'impegno a leggere criticamente i complessi problemi che li investono.
15 luglio 2013
15-07-2013

 
Valutazione sì, ma proprio così?

Con l’alibi ormai abusato, poco rassicurante ma anche poco veritiero “l’Europa lo vuole”, è stata comunicato dal MIUR che il Consiglio dei Ministri dello scorso 8 marzo ha approvato il Regolamento relativo al Sistema Nazionale di Valutazione delle scuole pubbliche.

I pareri sulla bozza di Regolamento erano stati estremamente critici e ci si aspettava che in questa fase limitata alla sola amministrazione ordinaria si scongiurasse un’approvazione così inutilmente affrettata.

La valutazione è infatti tutt’altro che ordinaria, anche perché definisce un contesto di assoluta novità per la scuola italiana e mira a comporre in maniera sistemica i diversi aspetti relativi alla valutazione delle singole istituzioni, dei dirigenti, degli insegnanti e degli studenti per analizzare l’efficacia del sistema scolastico nazionale.

La sensibilità in proposito è cresciuta in questi anni presso l’opinione pubblica e presso insegnanti e dirigenti. Il dibattito stava ora mettendo sotto osservazione le differenti modalità con cui l’obiettivo può essere realizzato e ad esempio era ampiamente condivisa la critica a una valutazione incentrata sull’INVALSI in una logica per cui il ministero valuta se stesso.

Che urgenza c’era di chiudere senza neppure aver aperto il dialogo e il confronto? Perché bloccare un passaggio determinante del percorso di riflessione sociale sul valore e il senso del sistema scuola e calare ancora una volta dall’alto soluzioni preconfezionate e insoddisfacenti con un piglio decisionista degno di altre cause?
(12 marzo 2013)
15-03-2012

 
Insegnanti e de-qualificazione della scuola
Il Consiglio Nazionale della Fnism, riunitosi il 26 novembre, ha concluso i lavori con il seguente documento approvato all’unanimità.

La Fnism, interpretando il pensiero dei suoi associati, ritiene di dover esprimere il proprio dissenso nei confronti di una politica scolastica che continua sulla linea dei tagli e delle riduzioni di personale, in assenza di prospettive di innovazione e di una progettualità che sia in grado di dare risposte a studenti e insegnanti. Ad essi, che in questi giorni stanno manifestando la loro rabbia e delusione, la Fnism esprime la sua solidarietà condividendo l’aspirazione ad una scuola pubblica forte, che sia messa in condizioni di sviluppare nei giovani tutte le potenzialità individuali e le attitudini di cittadinanza.

A conferma di quanto poco la scuola e le sue dinamiche siano conosciute e considerate all’esterno, sono anche arrivate le affermazioni del Presidente del Consiglio che, in uno dei numerosi luoghi di una politica ormai ridotta a spettacolo d’intrattenimento serale, si è rammaricato della scarsa disponibilità degli insegnanti a prolungare il loro orario frontale, accusandoli di conservatorismo e di difesa di interessi corporativi. Egli è così ritornato su una questione che aveva già suscitato nel mondo della scuola proteste così forti e motivate da consigliare il ministro Profumo a ritirare la proposta.

Ci chiediamo quali fondamentali problemi si possono risolvere con 6 ore (non 2, signor Presidente!) d’insegnamento frontale in più. Possibile che non arrivi il messaggio che non si tratta di allungare il brodo per tagliare qualche altra cattedra e buttar fuori un altro po’ di insegnanti, magari precari, ma che bisogna restituire alla scuola qualità e valore sociale?

Quale visione della scuola e della formazione delle giovani generazioni hanno i componenti di questo governo formato per di più da docenti universitari?

Con molto rammarico non possiamo che registrare un’intima continuità con il precedente governo, radicata sulla visione del risparmio a tutti i costi. E’ chiaro che siamo inchiodati a una visione contabile della scuola, molto simile a quella del governo Berlusconi e di un ministro come la Gelmini che ha gestito l’istruzione pubblica con logiche minimali dal punto di vista culturale e ragionieristiche nella sostanza, in quanto fatte di tagli dettati dal ministero dell’economia. E ora siamo in presenza di un liberismo tecnico per cui la produttività degli impiegati-insegnanti si calcola in ore in più o in meno di servizio.

E’ significativo che questa volta non ci abbiano detto che “è l’Europa che ce lo chiede” perché in Europa, sulla scuola, si sta investendo decisamente di più. E non si dica che gli insegnanti italiani hanno un orario più breve dei loro colleghi europei perché allora si continua ad alimentare l’identificazione dell’orario di servizio con le ore in cattedra, come succede in una scuola che prevede, come essenziali, solo aule sovraffollate e un caotico non luogo come la sala docenti.

Ma forse il messaggio vero, distruttivo per la scuola pubblica, è proprio questo: invitare gli insegnanti a rinunciare a una professionalità forte per la quale la scuola continua a non essere attrezzata. Chi può permettersela potrà cercarla nel sistema dell’istruzione privata che dall’affossamento della scuola statale ha tutto da guadagnare, con la complicità e la disponibilità di tutti i governi, più o meno tecnici.
14-03-2012

 
Uscire dai compromessi
L’insediamento del nuovo ministro Profumo si apre con due verifiche importanti per la scuola.
La prima riguarda il monitoraggio promosso dal MIUR per verificare gli esiti sul piano della didattica e dell’organizzazione delle modifiche ordinamentali introdotte dalle leggi 132/2008 e 169/2008 e avviate nel 2009. L’obiettivo è di far emergere i risultati dell’applicazione di due diverse indicazioni curriculari: le Indicazioni Nazionali del 2004 e le Indicazioni per il curricolo del 2007.
Per la verifica è stato predisposto un questionario destinato alle scuole che dovrebbe far emergere “l’armonizzazione degli assetti pedagogici , didattici e organizzativi della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione con gli obiettivi del DPR 89/2009”.
Ci chiediamo come possa un questionario con domande di tipo tecnico-organizzativo dar conto dei cambiamenti che hanno investito la scuola e che sono conseguenza dei Regolamenti Gelmini con i loro tagli lineari assai più che dei processi d’innovazione e di miglioramento che pure hanno incrociato. Come possono i questionari dar conto delle deprivazioni che hanno investito le scuole e delle difficoltà per i docenti, i dirigenti, i genitori e, non da ultimi, gli studenti? Eppure è da lì che bisogna ripartire, anche per arrivare alla prevista, eventuale elaborazione di un nuovo testo entro l’agosto 2012.
L’altra verifica riguarda la sperimentazione “Valorizza” che ha coinvolto 33 scuole nell’obiettivo di individuare meccanismi per individuare e premiare gli insegnanti migliori. Anche in questo caso sono evidenti i limiti progettuali di un’impostazione centrata sul presupposto che la “reputazione” sia il miglior strumento per individuare la qualità, in assenza di modelli professionali efficaci e per di più rimanendo nella dimensione premiale dei più bravi, propostisi volontariamente alla sperimentazione. Ferma restando la necessità di definire un solido –ed equo- sistema nazionale di valutazione che tenga insieme la valutazione degli istituti scolastici, dei suoi operatori e degli studenti, ci troviamo di fronte a una questione delicata, dove c’è ancora molto da lavorare e bisogna dar spazio alla voce delle scuole, alle loro esperienze e tener conto delle pratiche utilizzate in altri Paesi.
Il Ministro Profumo ha dichiarato di voler perseguire “obiettivi chiari, con risorse certe, monitoraggio continuo” (Convegno ANP di Fiuggi). Ci sembra un ottimo punto di partenza. Ma forse prima di ripartire bisognerà sgombrare il campo dalle macerie che hanno ingombrato la scena in questi anni.
15-12-2011

 
Chi valuta i valutatori?
Uno dei passaggi più difficili su cui il Ministero continua a inciampare rovinosamente è quello della valutazione. Anche perché il presupposto è che ad ostacolarla sia solo l’ostruzionismo e un no pregiudiziale delle scuole e degli insegnanti.
A conferma che non è così, ecco l’ultimo scivolone dell’INVALSI, l’istituto nazionale per la valutazione del sistema scolastico. Già il discutibile tempismo nell’emanazione delle norme sugli esami di stato del 1° ciclo e le indicazioni sulla prova scritta relativa alla seconda lingua avevano creato sconcerto e ora, nella fase di correzione delle prove, è arrivata la comunicazione che le griglie di valutazione delle prove di matematica e di italiano contenevano degli errori tali da falsare la valutazione degli studenti. Una cosa non da poco, visto che ormai le prove Invalsi contribuiscono a pieno titolo alla media dei voti. A cavarsela meglio sono state le scuole e gli insegnanti che avevano proceduto con la correzione manuale, mentre per chi aveva usato le griglie il lavoro è stato tutto da rifare.
Un disguido irrilevante, un incidente da minimizzare come dice il Ministero? Forse, ma conferma come la partita della valutazione nel nostro Paese sia ancora tutta aperta e non basta che il ministro Gelmini dichiari con una certezza che sfiora l’arroganza “sulla partita Invalsi non si torna indietro”. Siamo in Europa, non dimentichiamolo, dove da anni si fa ricorso a strumenti di valutazione del sistema e, parodiando Totò del “Siamo uomini o caporali?” potremmo dire “siamo europei o africani?” magari con una punta di orgoglio leghista del tutto ingiustificato.
Non vorremmo passare per i soliti disturbatori della pace scolastica, che non vogliono arrendersi alla rassicurante certezza delle circolari ministeriali e delle decisioni -come sempre- già prese.
Tuttavia, modestamente e con un po’ di vergogna per non essere portatori di certezze in una fase politica in cui non ci sono spazi intermedi tra il sì e il no, spazi per il dubbio e la riflessione, per una ponderazione delle ragioni dell’una e dell’altra parte, vorremmo fare alcune osservazioni.
Queste prove rientrano in una logica di rilevazione internazionale dei livelli di competenza che in Italia non ha mai riscosso molte simpatie anche per ragioni riconducibili alla scarsità e alla poca chiarezza dell’informazione sull’uso delle prove stesse.
Sappiamo bene che tra i NO alla valutazione si può trovare di tutto, da chi pensa inopinatamente che l’insegnamento sia un’arte incompatibile con qualsiasi tipo di verifica e di valutazione della sua efficacia a chi sostiene che si vuole proporre solo un criterio che distingua tra scuole buone e scuole cattive, tra insegnanti bravi e insegnanti incapaci. Sono un modo per verificare le carenze nell’azione delle scuole, per capirne le ragioni e magari provvedere a migliorare o sono solo un altro aspetto della valutazione degli studenti e, indirettamente, di controllo dell’efficacia degli insegnanti? In questo caso fanno bene quegli insegnanti che, in previsione della prova, si mobilitano a preparare i loro studenti perché è chiaro che il loro insuccesso li chiamerebbe in causa? Ecco allora entrare a pieno nella didattica gli “alfa test“ messi on line dalla stessa INVALSI, e i manuali preparatori che trovano ampio spazio, ricchi di consigli per l’uso e all’insegna dei paradisi di una didattica alternativa a quella tradizionale..
In realtà il problema di fondo ci sembra un altro. In assenza di un sistema di valutazione delle scuole e degli insegnanti, oltre che degli studenti, il ricorso ai test perde il carattere di parzialità che dovrebbe connotarlo intrinsecamente e esce dal piano della verifica e dell’accertamento dei livelli di comprensione della matematica o della lettura per diventare l’unico strumento cui si affida un giudizio di valore sulla scuola. E, sia detto per inciso, torna a insistere sulla valutazione degli studenti, come avviene appunto per gli esami di terza media.
E dov’è la scuola che da sempre è anche molto altro rispetto alla capacità di leggere, scrivere e far di conto e tutto ciò che può essere quantificato con strumenti presunti oggettivi?
A questo punto hanno ragione gli insegnanti a dire di no a una didattica che si debba preoccupare delle risposte ai quiz, hanno ragione a protestare i genitori che si aspettano dalla scuola qualcosa di più di un’abilità che al più può portare a buoni risultati nelle trasmissioni televisive, hanno ragione gli studenti che hanno diritto di sapere le ragioni e le finalità di ciò che si fa a scuola, per loro e non su di loro.

19-06-2011

 
A seguito delle recenti polemiche sulle dichiarazioni, per lo più infelici, di tanta parte politica sull’argomento scuola ed insegnamento, Prismanews ha intervistato sul tema la Presidente della Federazione Nazionale degli Insegnanti (FNISM), professoressa Gigliola Corduas.

La Federazione Nazionale degli Insegnanti è la più antica associazione di insegnanti, fondata nel 1902 da Salvemini e da Kirner, e associa insegnanti delle scuole pubbliche di ogni ordine e grado, personale direttivo ed ispettivo della P.I. e docenti universitari.

Presidente è proprio vero che gli insegnanti delle scuole pubbliche inculcano negli studenti, con la scelta dei libri testo, ideologie e valori diversi da quelli della famiglia? "Ancora una volta torna l’accusa, già prospettata il mese scorso in occasione del congresso dei cristiano-riformisti, di inculcare negli studenti ideologie e valori diversi da quelli della famiglia. Questa volta il contesto è l’incontro dell’Associazione Nazionale delle Mamme, così abbiamo dovuto subire anche un melenso peana sul valore delle donne-mamme, ministre-mamme comprese, “più brave in tutto” secondo uno stereotipo nostrano che convive tranquillamente con una realtà che continua ad essere fatta da donne portatrici d’acqua escluse dal potere effettivo. In realtà la scuola pubblica che trova il suo ancoraggio nella Costituzione, è ben lontana dall’inculcare qualcosa negli studenti, poiché parla del diritto di tutti all’istruzione nel rispetto, come afferma l’art.3, di tutte le differenze, comprese quelle di opinioni politiche e religiose. Insomma è una scuola che non catechizza ma, per dirla con le parole del fondatore della Fnism Gaetano Salvemini, è “una scuola in cui tutti gli insegnamenti sono rivolti a educare e rafforzare negli alunni le attitudini critiche e razionali" Quanto ai libri di testo, poi, l’accusa sarebbe quella di non rispettare la realtà e di proporre una versione di stampo eversivo, in particolare della storia patria. La soluzione sarebbe l’istituzione di una Commissione parlamentare che garantisca la loro oggettività e scovi quelli colpevoli di una parzialità che “getta fango su Berlusconi”. Va in questa direzione il Progetto di Legge Carlucci, firmato da 18 parlamentari del Pdl, con allegato l’elenco dei libri incriminati e relativi passaggi messi all’indice del pubblico ludibrio".

Ci sarebbe di che allibire, ma ormai anche questo sta diventando difficile.

Perchè sono così dure e inaccettabili le dichiarazioni del Premier? "Sicuramente in queste esternazioni si va ben oltre le critiche agli insegnanti o ai testi scolastici. Di sicuro non è sotto accusa l’insegnamento della Storia: chi può pensare che sia possibile ridurla a un neutro resoconto cronachistico degli eventi? Siamo sempre di fronte a narrazioni del passato, la cui attendibilità rinvia ad esempio al rigore e alla completezza delle fonti cui ci si rifà, che devono essere verificabili da chiunque. Ma siamo certi che questi aspetti non interessino molto chi ha sollevato la polemica. Ciononostante fa davvero male vedere degli studiosi sul banco degli imputati, accusati in base alla loro scarsa funzionalità alla politica e al potere attualmente in auge. Non ci piace proprio che si entri nel merito di quanto i giudizi di Franco Della Peruta rispondano di una presunta “verità storica”: conta la correttezza delle sue argomentazioni, la sua credibilità di studioso, quell’onestà intellettuale che tale rimane anche quando altri studiosi arrivano a conclusioni diverse”.

Quindi sotto accusa è tutta la scuola pubblica? "Mentre siamo alle prese con problemi - questi sì epocali e tali da incidere pesantemente sulla vita di tutti, dal lavoro all’economia, dalla qualità del rapporto con le giovani generazioni private del loro futuro alla nostra immagine sulla scena europea e internazionale - le accuse rivolte ai libri di testo e agli insegnanti sarebbero davvero poca cosa se non costituissero in realtà un attacco alla scuola pubblica, così poco funzionale ad educare consumatori e a trasmettere una cultura che non sia indottrinamento a maggior gloria del potere. Al di là dell’apparente casualità di queste esternazioni, non si può più dubitare che tanta insistenza sulla scuola la indichi come un potente ostacolo nel piano, che sta così a cuore a chi ci governa, di liquidazione del sistema pubblico che passa anche attraverso la delegittimazione e l’intimidazione dei suoi professionisti”.

Qual è allora il vero ruolo della scuola pubblica? "In realtà la scelta di fondo è tra due alternative. Da un lato abbiamo una scuola in cui è lecito indottrinare gli studenti, purché i valori di riferimento siano gli stessi delle famiglie e, poiché non parliamo di scuole private –per definizione parziali, rivolte a chi le sceglie perché si riconosce nel loro cartello valoriale e religioso- ma di scuola pubblica, allora dovrebbero esserci dei valori omologati, semplificati, definiti una volta per tutte che solo i regimi possono permettersi. Dall’altro lato abbiamo una scuola che persegue obiettivi di innalzamento dei livelli di cultura e di formazione che sono alla base dell’esercizio della cittadinanza e che attraverso la rimozione degli ostacoli rende praticabile senza discriminazioni il diritto all’istruzione di cui parla la Costituzione. In questa prospettiva, il problema non è se i valori e le ideologie che la scuola inculca negli studenti sono diversi da quelli delle famiglie, ma il fatto che la scuola non deve inculcare proprio nulla. Educare è far crescere, sviluppare il senso dell’appartenenza a una comunità che si riconosce in determinati valori espressi nella carta costituzionale e che non sono ideologie ma assi d’orientamento della convivenza civile e il cui valore principale consiste nell’essere conosciuti e accettati in maniera consapevole".

Lei cosa si auspica? "Che si possa realizzare il dettato costituzionale che afferma la libertà di pensiero e di parola, il diritto a un insegnamento non ideologico, allo sviluppo delle potenzialità individuali anche oltre i limiti del contesto familiare, il diritto alla formazione di spirito critico, al rispetto della libertà e dell’uguaglianza. Vale ancora l’osservazione di Salvemini “In generale tutti i partiti religiosi o politici guardano con cupidigia alla scuola e son portati a considerare gl’insegnanti come doganieri del pensiero, o giullari che abbiano il dovere di cambiare la canzone secondo 'Muta il capriccio della castellana" (ne “Il programma scolastico dei clericali”). Quante volte ancora dovrà morire Socrate che, non volendo educare i giovani agli dei della città, fu accusato di perturbare e corrompere le loro coscienze?".
Chi ha paura della scuola pubblica?
Intervista di Pietro Ceccarelli a Gigliola Corduas
02-05-2011

 
Gigliola Corduas, presidente FNISM, intervistata da Pietro Ceccarelli
"Inaccettabili le dichiarazioni del Premier sulla scuola!"

Insorge la Fnism-Federazione Nazionale degli Insegnanti, a seguito delle recenti dichiarazioni espresse dal Presidente del Consiglio Berlusconi riguardo la scuola pubblica, chiamando in causa sia gli insegnanti - che "inculcano agli studenti valori diversi rispetto a quelli delle famiglie" - sia i genitori, che non hanno la possibilità di educare i propri figli liberamente "e liberamente vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato".

Prismanews ha voluto raccogliere la protesta lanciata dalla Fnism, la più antica Associazione di Insegnanti, fondata nel 1902 da Salvemini e da Kirner, che associa insegnanti delle scuole pubbliche di ogni ordine e grado, personale direttivo ed ispettivo della Pubblica Istruzione e docenti universitari. Abbiamo intervistato, nel merito della protesta, la Presidente nazionale Gigliola Corduas: per lei e per tutta l'Associazione, una scuola pubblica è quella su cui si investe invece di lesinare, con rigore e chiarezza d’obiettivi; in grado, parimenti, di dare risposte alle esigenze formative degli studenti che con i titoli di studio che essa rilascia entrano nel mondo del lavoro e delle professioni.

Presidente, perché questa vostra alzata di scudo? "Perché è evidente la strumentalità delle dichiarazioni rilasciate dal premier in un‘occasione ben precisa come il congresso dei crisitiano-riformisti, dichiarazioni che hanno il tono assertorio e semplificato di uno spot pubblicitario mirato alla conquista di un elettorato cattolico ormai esasperato. Tuttavia ci interroghiamo sull’arroganza di una politica scolastica che da anni sta privando la scuola di risorse materiali e professionali e poi le rinfaccia di non funzionare".

E a quali professori si riferisce secondo lei il Presidente del Consiglio? "Certo non a quelli che ogni giorno entrano in classe, senza strumenti che li aiutino a svolgere al meglio il loro lavoro, in una scuola che negli ultimi anni ha conosciuto solo tagli e decurtazioni ben oltre qualsiasi razionalizzazione degli eventuali sprechi, che del resto sono difficili da immaginare, visto che sulla scuola si è sempre mirato a risparmiare".

Chi sono invece i genitori di cui parla il Premier? "Certo non sono quelli che incontriamo quotidianamente nelle nostre scuole, preoccupati per il futuro dei loro figli e disposti a coprire le carenze di una scuola stremata, costretti a portare da casa quegli strumenti di ordinario consumo che vanno dalla carta per le fotocopie alla carta igienica".

Il documento da voi diffuso, contiene altre richieste? "Da sempre ci battiamo per la qualità della scuola pubblica e ci aspettiamo parole diverse da coloro che, per il loro ruolo istituzionale, hanno il dovere di impegnarsi per dar valore a questa scuola e rispondono delle scelte di politica scolastica e formativa. Assistiamo invece a una “svendita di fine stagione” proprio in concomitanza con il periodo delle iscrizioni, in cui si addita la superiorità del modello della scuola confessionale. Non ci interessa entrare nel merito di quanto possa essere libera una scuola che nasce orientata su valori religiosi, o di quanto essa si ponga al di sopra delle logiche di un mercato dove tutto può essere acquistato".

Ma? "Vogliamo una scuola pubblica su cui si investe invece di lesinare, con rigore e chiarezza d’obiettivi, una scuola in grado di dare risposte alle esigenze formative degli studenti che con i titoli di studio che essa rilascia entrano nel mondo del lavoro e delle professioni. Una scuola che collabori con le famiglie in un compito educativo sempre più difficile e complesso. Soprattutto pretendiamo che le diano fiducia coloro che guidano il nostro paese, che hanno tutta la responsabilità di quelle scelte e non possono lavarsene le mani additando la scuola privata come alternativa alla loro incapacità o cattiva volontà".


intervista tratta da Prismanews.net

07-03-2011

 
La scuola ai tempi di Berlusconi
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Alle dichiarazioni di Silvio Berlusconi che denunciano professori che “inculcano agli studenti valori diversi rispetto a quelli delle famiglie” e di genitori che non hanno la possibilità di educare i propri figli liberamente “e liberamente vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di stato”, ci chiediamo di quale paese pensi di essere il premier.
E’ evidente la strumentalità di dichiarazioni rilasciate in un‘occasione ben precisa come il congresso dei crisitiano-riformisti, dichiarazioni che hanno il tono assertorio e semplificato di uno spot pubblicitario mirato alla conquista di un elettorato cattolico ormai esasperato. Tuttavia ci interroghiamo sull’arroganza di una politica scolastica che da anni priva la scuola di risorse materiali e professionali e poi le rinfaccia di non funzionare.
Chi sono gli insegnanti di cui parla il premier? Certo non quelli che ogni giorno entrano in classe, senza strumenti che li aiutino a svolgere il loro lavoro, in una scuola che negli ultimi anni ha conosciuto solo tagli e decurtazioni ben oltre qualsiasi razionalizzazione degli eventuali sprechi che è difficile immaginare, visto che sulla scuola si è sempre mirato a risparmiare.
Chi sono i genitori di cui parla? Certo non sono quelli che incontriamo quotidianamente nelle nostre scuole, preoccupati per il futuro dei loro figli e disposti a coprire le carenze di una scuola stremata portando da casa quegli strumenti di ordinario consumo che vanno dalla carta per le fotocopie alla carta igienica.
Ci aspetteremmo parole diverse da coloro che per il loro ruolo istituzionale dovrebbero impegnarsi per dar valore a questa scuola e rispondere delle scelte di politica scolastica e formativa. Assistiamo invece a una svendita di fine stagione proprio in concomitanza con il periodo delle iscrizioni, in cui si addita la superiorità del modello della scuola confessionale.
Non vogliamo entrare nel merito di quanto possa essere libera una scuola che nasce orientata su valori religiosi o di quanto essa si ponga al di sopra delle logiche di un mercato dove tutto può essere acquistato.
Quello che si chiede è una scuola pubblica su cui si investe invece di lesinare, con rigore e chiarezza d’obiettivi, una scuola in grado di dare risposte alle esigenze formative degli studenti che con i titoli di studio che essa rilascia entrano nel mondo del lavoro e delle professioni. Una scuola che collabori con le famiglie in un compito educativo sempre più difficile e complesso.
E ci piacerebbe che le dessero fiducia coloro che guidano il nostro paese e che di quelle scelte hanno tutta la responsabilità.
28-02-2011

 
La residenza non è un merito
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 41 dello scorso 9 febbraio, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 1, comma 4-ter, del decreto legge 25 settembre 2009 n. 134 Disposizioni urgenti per garantire la continuità del servizio scolastico ed educativo per l'anno 2009-2010,aggiunto dalla legge di conversione n. 167 del 24 novembre 2009.
I docenti precari già inclusi nelle graduatorie provinciali ad esaurimento, per il biennio 2009/2011 avevano potuto presentare domanda di aggiornamento limitatamente alla provincia del loro inserimento precedente, poiché non era previsto il trasferimento in una provincia diversa. La L.167/2009 aveva concesso, sia a docenti già inclusi che a quelli inseriti per la prima volta, la facoltà di inserirsi in un numero massimo di altre 3 province, ma con una collocazione in coda all’ultimo dei candidati già inclusi o neo-inclusi nelle province prescelte.
1.500 precari avevano impugnato il criterio di tali disposizioni con un ricorso al Tar del Lazio che però ha sospeso il giudizio chiedendo alla Corte Costituzionale di verificare la legittimità costituzionale di quanto stabilito dalla legge 167/2009.
La sentenza della Corte ha dichiarato l’illegittimità di tale provvedimento nella parte in cui prevede la collocazione “in coda” degli aspiranti ai quali, invece, compete l’inserimento “a pettine” in rapporto al punteggio per i titoli ed i servizi maturati alla presentazione delle domande.
E’ stato così cancellato un trattamento discriminatorio nei confronti dei docenti che avevano chiesto di essere inseriti nella graduatoria in una provincia diversa da quella di provenienza.
E’ ora necessaria una soluzione che eviti o limiti i disagi conseguenti alla revisione delle graduatorie e quindi delle assunzioni.
Il problema che si era cercato di risolvere derivava dalla difficoltà di conciliare il diritto degli insegnanti di spostarsi da una provincia all'altra con quello di coloro che, fatta una scelta, si vedono continuamente scavalcati nelle proprie posizioni. C’è da chiedersi quali strategie possano ora essere perseguite senza creare nuove situazioni di difficoltà e senza cadere negli equivoci di un territorialismo angusto che ha ben poco a che spartire con i proclamati criteri meritocratici.
14-02-2011

 
Tra il serio e il faceto
Tra il serio e il faceto, tra il folclore e l’impudore, siamo passati dalla carnevalata della scuola di Adro decorata con il sole delle Alpi, pezzo essenziale della fumosa mitologia leghista, all’ultima – ma tale solo in ordine di tempo- uscita dell’assessore regionale all´istruzione del Veneto che ha invitato le scuole della regione a non adottare, non far leggere né conservare nelle biblioteche i testi diseducativi degli autori che hanno firmato l´appello a favore di Cesare Battisti. “Semplicemente” dice lei. E aggiunge «non chiediamo nessun rogo di libri, intendiamoci”. Tuttavia precisa, «un boicottaggio civile è il minimo che si possa chiedere davanti ad intellettuali che vorrebbero l´impunità di un condannato per crimini aberranti». Annuncia che invierà una lettera in proposito a tutti i presidi. Una lettera ufficiale e su carta intestata, presumiamo, tanto più che l’iniziativa riscuote l’appoggio dell’assessore alla cultura della Provincia di Venezia e del presidente della Regione.
Del resto la censura leghista, più o meno esplicita, si sta manifestando anche nelle biblioteche, dove si sconsigliano i libri di Roberto Saviano. Della libertà di pensiero e di stampa probabilmente non si discute molto da queste parti.
Ci incuriosisce vedere come reagiranno le scuole, le istituzioni e la popolazione, anche questo sarà un indice interessante degli effetti di una colonizzazione antistorica e tutta radicata sul terreno di interessi economici che hanno bisogno di essere fondati e riconosciuti in un’identità condivisa, hanno bisogno di stigmatizzare una compatta schiera di “comuni nemici” (gli altri in generale: i romani antichi e moderni, i meridionali, gli extracomunitari). E per far questo serve una cultura rozza e primitiva, con un vocabolario limitato, possibilmente triviale perché così lo capiscono tutti e non ci sono equivoci. E nell’Italia che celebra i 150 anni del suo difficile percorso a stato unitario aperto alla dimensione europea e internazionale, brilla questo fiore all’occhiello della Padania poco lontana dai tempi delle caverne. Tutto il resto è materia da censura.

20-01-2011

 
Tormentone o “convitato di pietra”?
Il tema dell’educazione alla sessualità nella scuola è un vero e proprio tormentone, se ne consideriamo l’assillante quanto inutile riproporsi ciclico che ogni volta finisce per esaurirsi ed essere messo da parte. Questa volta l’efficacia del rilancio è tutta nelle parole con cui il 10 gennaio, nel suo discorso agli ambasciatori accreditati in Vaticano, il Papa si è scagliato contro l'educazione sessuale: «Non posso passare sotto silenzio un'altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie in alcuni Paesi europei, là dove è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile che trasmettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono un'antropologia contraria alla fede e alla retta ragione». Contraria alla fede, forse, ma non certo alla retta ragione che da secoli è impegnata nel non facile compito di ancorare la sua rettitudine a cardini che non siano le fedi religiose.
E se in passato, alla latitanza su queste tematiche delle famiglie, i giovani potevano contrapporre come fonti d’informazione oltre ai confessionali, gli amici che magari ne sapevano meno di loro, oggi questo terreno è invaso in maniera totale dai mezzi d’informazione che, lungi dal rispondere ad esigenze informative e formative, ne fanno uno strumento per alimentare la propria vocazione commerciale.
E’ vero che anche in questo caso interventi di educazione sessuale possono essere d’ostacolo alle ragioni tutte poco razionali che sono alla base del consumo, ma non ce ne aspettiamo una difesa da parte della chiesa.
La critica del pontefice si è rivolta in particolare a quei paesi europei dove le scuole assumono su di sé questa responsabilità e dunque l’Italia esce incolume dagli strali pontifici poiché, nonostante fin dal 1975 ci siano stati innumerevoli tentativi di arrivare a una legge in materia, si rimane ancora a livello di rari interventi extracurricolari, ormai privi anche dei minimi finanziamenti su cui potevano contare. Eppure le esperienze realizzate hanno mostrato come la domanda che viene dai giovani non si esaurisce ad un livello informativo, pur necessario per gestire la propria sessualità e non esserne condizionati in maniera spesso estremamente pesante, ma tocchi le dinamiche dell’affettività, delle relazioni, dell’identità di genere e delle tante maniere in cui si è donne e uomini e si vive la propria sessualità nell’ampiezza delle sue sfumature.
Essere accompagnati in maniera consapevole in questo campo per uscire dalla barbarie dei pregiudizi e degli ammiccamenti viziosi fà di questo insegnamento un “convitato di pietra” della cui presenza si gioverebbe la stessa vita pubblica e privata degli adulti. E chi potrebbe farlo meglio della scuola, a condizione che accetti di confrontarsi con quella centralità di studentesse e studenti tanto proclamata ma mai attuata?
10-01-2011

 
Dai fasti della storia alle miserie della cronaca
In un giorno drammatico per la scuola, nel bel mezzo di una protesta che sta animando università e scuole, è stato rilanciato il tema della valorizzazione del merito di scuole e insegnanti con incentivi economici. E, parola del ministro, quel giorno diventa storico.
La valorizzazione, o meglio la premiazione, scaturirebbe da una valutazione che indicherebbe le scuole migliori e gli insegnanti più bravi. Ma sono pochi i fondi e dunque poche le scuole: l’ambito
delle migliori sarà circoscritto alle scuole medie di Pisa e Siracusa. Per gli insegnanti ci si limita a Torino e Napoli. I punti critici di questa iniziativa sono innumerevoli, dalla composizione dei team giudicanti ai criteri di giudizio che, soprattutto per gli insegnanti, sono tutt’altro che scontati, per non parlare del quantum del premio, della volontarietà della partecipazione e dell’angustia del campione scelto.
Per non essere inutilmente critici, vorremmo sottolineare come la valutazione sia un elemento importante nel profilo di una categoria professionale chiamata continuamente a giudicare e valutare, come sono gli insegnanti. Ma perché questo sia possibile è necessario ridefinire quel profilo, stabilirne senza equivoci i percorsi di formazione iniziale e in servizio, i canali di reclutamento, tutte cose su cui la Fnism,insieme alle altre associazioni di insegnanti, insiste da tempo ormai immemorabile. Altrimenti che cosa si giudica? Forse la capacità di sopravvivere in un sistema che fa acqua da tutte le parti e la tenacia di conservare la dignità del proprio lavoro e il rispetto per le persone che ci sono affidate? Ma questa è una partita che ciascuno affronta in maniera diversa e chi ci riesce merita una medaglia al valore più che uno sporadico premio. Abbiamo bisogno di definire chi sono i bravi insegnanti e di sostenerli nel loro difficile lavoro. Premiarli appartiene a un’altra fase, magari per evidenziare il surplus rispetto alle prestazioni base al di sotto delle quali a nessuno è consentito scendere, e questa è l’altra faccia della valutazione, altrettanto essenziale anche se meno spendibile sul piano dell’immagine di un ministro in crisi.
I tagli che hanno massacrato la scuola esigerebbero una maggiore sobrietà nell’affrontarne i problemi e anziché fare i conti ogni volta con prospettive storiche o epocali, sarebbe opportuno puntare sulla sua capacità di tenuta in attesa di tempi migliori. Insomma, vale per la scuola l’auspicio disperato “speriamo che se la cavi”.

01-11-2010

 
La forma e la sostanza
Ci piacerebbe cogliere la dimensione positiva dei provvedimenti contenuti nel Disegno di Legge approvato dal Consiglio dei ministri il 1° agosto. Ci piacerebbe pensare che democratici e asettici grembiuli o divise unificate per i più grandi o il ritorno al voto di condotta possano rilanciare comportamenti corretti, alimentati dal pacchetto di 33 ore annue di insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione” con tanto di valutazione e magari di riparazione a settembre.
Ma c’è il timore che ci si voglia illudere che sia sufficiente una verniciata tutta esterna per coprire le crepe di questa scuola che ha bisogno di interventi radicali e sistemici per tornare ad essere credibile.
Servono provvedimenti di cui non vediamo traccia, al di là delle proclamazioni di principio e dei toni minacciosi e punitivi con cui è stato sfiorato ad es. un tema cruciale come quello della valutazione.
Al contrario, sono ormai imminenti le ricadute del decreto legge 112, che porterà a classi sovraffollate e a tagli drastici, con la conferma di un approccio al sistema scolastico in termini di risparmio seppure camuffato dietro obiettivi di efficienza, decisamente poco in sintonia con la complessità dei processi formativi di cui la scuola si occupa.
Ancora una volta il passaggio d’obbligo potrebbe essere l’autonomia scolastica, la cui ragion d’essere va ben oltre la facoltà, attribuita ai dirigenti, di assumere gli insegnanti, facendone una punta avanzata della filosofia sottesa al PDL Aprea.
Solo nella responsabilità di un’autonomia finalizzata al raggiungimento di obiettivi di istruzione e formazione, attenta alle pratiche didattiche e relazionali potrebbero configurarsi scuole che trasformino regole astratte in norme di comportamento vincolanti per tutti, scuole che non si limitino a valutare gli studenti ma accettino di essere valutate e che garantiscano la democraticità del sistema portando gli studenti –tutti gli studenti- ai livelli essenziali delle prestazioni, questi sì da ridefinire urgentemente a livello nazionale! Scuole dove abbia senso stare per studenti e per insegnanti e dove un meccanismo di appartenenza e di identificazione porti ad accettare una divisa che ha valore perché è quella della propria scuola e poco importa se l’abbia disegnata qualche noto stilista magari con periodici aggiornamenti del look come per le mitiche divise delle hostess dell’Alitalia di tempi migliori.
Insomma, per ricordare il detto di Archimede “Datemi una leva, solleverò il mondo”, pensiamo davvero che grembiuli e voto in condotta siano la leva con cui risollevare la scuola?

22-08-2010

 
Lupo Alberto torna a colpire
Stupisce lo stupore che ha suscitato la decisione di un liceo romano di collocare un distributore automatico di preservativi.
Non si può pensare alla scuola come luogo astratto in cui i giovani lasciano fuori dalle aule le loro ansie, incertezze, aspettative per diventare, nell’età più segnata dall’idealismo ma anche più pressata da stimoli fisici e ormonali, i bravi ragazzi studiosi e diligenti secondo lo stereotipo che ogni famiglia applica ai propri figli.
Né è lecito meravigliarsi che, dopo bombardamenti implacabili di immagini, chiacchiere da bar e da talk shaw, fatti di cronaca e politici, una sessualità esaltata sul piano estetico o strumentalizzata commercialmente, riveli la sua influenza sull’immaginario e sulla vita quotidiana dei giovani condizionandone i comportamenti.
E allora è pura e semplice ipocrisia pensare di avvicinarli alla cultura senza partire dal loro essere ”qui e ora”, dalla loro fisicità e dal complesso di sentimenti che la accompagna, dalla necessità che sperimentano di convivere con le emozioni e con le ansie di un’identità in fase di strutturazione.
Come non basta neppure pensare che un distributore di preservativi possa risolvere il problema neanche se accompagnato da qualche corso in cui appaltare a uno psicologo una questione che va oltre il livello dell’informazione e chiama in causa le regole del rispetto verso se stessi e gli altri e allena ad assumere responsabilità e a fare scelte comportamentali ispirate a valori etici.
E’ la scuola che essi interrogano e non è facile giustificare la sua persistente impreparazione.



16-03-2010

 
Tra simboli e valori
Non ci sembra così offensiva, come vogliono farci credere, la sentenza della Corte Europea che conferma –ma in realtà lo sospettavamo da tempo- che l’esposizione obbligatoria del simbolo di una confessione religiosa nell’ambito di una funzione pubblica, e in particolare nella scuola, comprime il diritto delle famiglie ad educare i figli secondo le loro convinzioni come anche il diritto degli studenti di credere o di non credere(« l'exposition obligatoire d'un symbole d'une confession donnée dans l'exercice de la fonction publique relativement à des situations spécifiques relevant du contrôle gouvernemental, en particulier dans les salles de classe, restreint le droit des parents d'éduquer leurs enfants selon leurs convictions ainsi que le droit des enfants scolarisés de croire ou de ne pas croire.»)
Stupisce invece l’unanimismo dei commenti che vanno dall’orgogliosa rivendicazione delle radici cristiane della nostra società al buon senso piuttosto limitativo e rassegnato di credenti e non per i quali quel povero simbolo “non fa male a nessuno”.
E infatti non è quel simbolo che fa male, un uomo inchiodato ad una croce che -come afferma una recente sentenza del Consiglio di Stato - potrebbe anche assurgere a simbolo universale di condanna della violenza, caratteristica comune a tutte le religioni, ma è la persuasione che, attraverso quel simbolo, si vuol far passare una legittimazione della predominanza della chiesa cattolica nella realtà sociale e politica italiana, come più volte in questi anni abbiamo dovuto constatare.
E’ anche il rischio di conservare una sorta di gerarchia di fedi religiose con al vertice il cattolicesimo, ex religione di stato detronizzata ma di fatto sempre dominante, e via via le altre religioni, da quelle cristiane all’ebraismo, all’islam e a quelle ancora minoritarie fino all’ultimo gradino dove si raccolgono gli irriducibili non credenti, sempre sospetti di materialismo, relativismo e comunque poco affidabili.
Al di là delle polemiche di parte, la sentenza ci ha voluto ricordare che i luoghi pubblici sono tali in quanto tutti possono trovarvi la loro collocazione, senza gerarchie, mentre le religioni appartengono alla sfera privata e hanno forza in quanto aggiungono i loro valori a quel denominatore comune di cittadinanza in cui tutti si riconoscono e che non prevede guerre di religione, anche queste fortemente presenti nel bagaglio simbolico della nostra gloriosa civiltà.


01-11-2009

 
Ora di religione islamica a scuola? No, grazie
Un'ennesima provocazione sul fronte dell'insegnamento religioso a scuola viene dalla proposta di inserire un'ora settimanale di religione islamica.
Neppure la motivazione basata sul buon senso, per cui un insegnamento di religione islamica impartito a scuola sarebbe meglio dell'indottrinamento realizzato da un imam estremista, giustifica l'insistenza sul ruolo della scuola in campo religioso, ruolo che proprio non le spetta.
Se è opportuno che la scuola fornisca le informazioni essenziali relative alle grandi religioni come fenomeni da cui non si può prescindere nella conoscenza della storia, dell'arte, dello sviluppo sociale, culturale ed economico, non è assolutamente proponibile che si creino spazi separati per studenti cristiani, islamici, ebrei, confuciani e chi più ne ha più ne metta, visto il crescente numero di etnie e di professioni di fede presenti nel nostro territorio.
E' la cultura comune che deve crescere, sprovincializzarsi, aprirsi alle grandi dimensioni in cui la globalizzazione ormai ci ha collocato.
Il compito della scuola è sviluppare la cultura che è la base della cittadinanza e di cui si alimenta la convivenza civile: in questa non possono mancare elementi di conoscenza relativi alle religioni.
Alle singole persone, alle famiglie spetta invece la scelta di coltivarne gli aspetti attinenti alla formazione spirituale e alla pratica religiosa e rispetto a questi la scuola deve fare un passo indietro rispettando tutte le scelte, a partire da quella di non essere religiosi.
In una società ormai di fatto multietnica e multireligiosa, bisogna rassegnarsi a lasciare le pratiche di culto e gli indottrinamenti religiosi fuori dalla scuola, a soggetti e istituzioni apposite, siano esse le parrocchie o le madrasse, poiché la scuola di compiti ne ha già tanti e se risponde all'esigenza di formare buoni cittadini allora avrà combattuto, con gli strumenti che le sono propri, la prima battaglia contro l'integralismo, l'inciviltà e l'ignoranza.

30-10-2009

 
Una materia come poche
La appassionata difesa del ministro Gelmini sfociata nell'affermazione che anche la religione cattolica deve poter contare su un trattamento non discriminato rispetto alle altre materie scolastiche, finalmente riportate tutte dagli infami giudizi al voto, impone qualche considerazione altrettanto appassionata:
- neppure ai bei tempi in cui nessuno aveva ancora pensato di sostituire i voti con i giudizi, l’insegnamento religioso si concludeva con un voto, ma si limitava ad alcuni innocui giudizi come “sufficiente” “molto” “moltissimo”
- che cosa significa dare un voto in religione: valutare le conoscenze in materia di catechismo o le competenze di buon cattolico o il grado di intensità della fede o che altro?
- è in corso un processo di normalizzazione per cui la religione, se non può più essere dichiarata “fondamento e coronamento” dell’insegnamento come nei regi decreti, è comunque presente a tutti gli effetti e con ricadute tangibili sul percorso scolastico e ogni tanto registra avanzamenti, come è stato per i “crediti scolastici” riconosciuti dall’allora ministro Fioroni
- quanto più aumentano le minoranze religiose nel nostro paese, tanto più si vuole blindare il ruolo e la posizione della religione cattolica come religione prevalente, o meglio dominante o meglio ancora unica, visto che per le altre non sono previsti spazi neppure sul piano della conoscenza, che favorirebbe non poche correzioni degli atteggiamenti sommari e incolti che alimentano la xenofobia e i timori nei confronti di chi è diverso
- i tagli sul piano finanziario e la riduzione degli organici, anziché indurre a più miti consigli in direzione della facoltatività, inducono a scelte semplificatorie della serie “religione per tutti” e perdono valore le sottigliezze della facoltatività di questo insegnamento, oggetto di numerose pronunce, ultima quella del TAR del Lazio dello scorso luglio
- di fatto, prevedendo un voto, si spingono gli studenti a un concreto calcolo in termini di costi/benefici per cui poter contare su un voto in più (che avrà lo stesso valore di quello in greco o matematica), “val bene una messa”, come si suol dire, tanto più che non esiste un percorso alternativo alla religione cattolica per una precisa volontà che ha sempre svuotato il contenitore delle materie alternative che rischiava di fare concorrenza alla religione cattolica, magari proponendo la conoscenza di altre religioni o contenuti di etica sociale invadendo terreni riservati alla religione, unica depositaria di un'etica pubblica religiosa.
Ci chiediamo perché in questo paese sia sempre la scelta laica –che peraltro nulla nega alla scelta religiosa a condizione che non rivendichi privilegi a danno degli altri, di tutti gli altri – a dover dare continue testimonianze di sé e non è invece la scelta religiosa ad essere chiamata a testimoniare il suo valore in un contesto laico libero e rispettoso di tutte le vocazioni religiose come anche della scelta di non riconoscersi in alcuna religione senza essere per questo accusati di bieco materialismo o di pericolosa immoralità.

09-10-2009

 
Il cielo sopra Berlino e le nuove frontiere della laicità.
Nella Berlino abitata da una pluralità di etnie e professioni religiose non ha suscitato alcun entusiasmo il referendum indetto a sostegno dell'insegnamento religioso. Ha votato il 29 % degli aventi diritto: di questi, solo il 48% si è dichiarato a favore mentre il 51% era contrario.
E’ un esito che riflette lo stato d'animo di una città in cui il 60 % degli abitanti si dichiara “non credente” ma dove una minoranza politicamente agguerrita ha spinto perché nelle scuole ci fosse un insegnamento obbligatorio della religione, su iniziativa di un'associazione di cattolici e protestanti con l'appoggio esterno -potremmo dire, se fossimo in Italia- di alcuni gruppi musulmani.
Un insegnamento religioso che ora c'è già ma, ahimé, è solo facoltativo mentre è obbligatorio fin dal 2006 l'insegnamento di “etica” i cui contenuti sono i valori fondamentali della costituzione tedesca e i principi della convivenza civile.
La proposta referendaria mirava a metterli sullo stesso piano, imponendo la scelta tra avvalersi dell'uno o dell'altro. Buoni cittadini o buoni religiosi? e perché non lasciare alla scuola la responsabilità di formare cittadini e alle parrocchie e alle strutture religiose quello di formare buoni credenti?
Colpisce che, mentre una città che esce dalle sofferenze dell'integralismo e dei suoi muri per il controllo della vita e delle coscienze difende il pluralismo e chiede alla scuola di non abdicare sul fronte della tenuta etica basata sui valori di cittadinanza, in Italia il pontefice abbia ancora una volta cercato di razionalizzare il confessionalismo della scuola statale proprio tirando la coperta della laicità fino a snaturarla. Ha infatti affermato che “l'ora di religione è parte integrante della scuola italiana ed è esempio di laicità positiva”. Ecco ancora il vecchio vizio di aggettivare la laicità distinguendone una buona e una cattiva, o forse solo una apparente e conciliante e una che non ha bisogno di alcun aggettivo perché o si è laici o non lo si è e non c'è nulla da aggiungere.
Questi sottili distinguo sono possibili solo nel nostro paese, dove le proteste dei vescovi fanno riapparire miracolosamente finanziamenti per le scuole private negati alla scuola statale e dove nulla deve turbare quel bel giardino del Vaticano che è sempre stata l'Italia.


01-04-2009

 
L'insostenibile leggerezza dei numeri
Dopo che ci è stato insistentemente ripetuto dallo stesso Ministro dell'Istruzione e dell'Università che in Italia si spende troppo e male per l'istruzione, arriva la bocciatura, per quanto si riferisce al troppo, di Eurostat l'istituto statistico della commissione Europea. L'Italia infatti non si classifica bene, nella graduatoria dei Paesi dell'Unione Europea per la spesa relativa all’istruzione, con il 4,4% del Pil, Nel 2005 la spesa pubblica degli stati membri della UE per l'istruzione è pari, in totale, al 5% del Pil. Il dato rilevato da Eurostat considera tutti i livelli di spesa pubblica, locali, regionali e nazionali, e comprende non soltanto le istituzioni scolastiche e universitarie ma anche le altre istituzioni che garantiscono il funzionamento del sistema educativo nazionale.
L'Italia si situa al ventunesimo posto. Meno dell'Italia spendono infatti soltanto Repubblica Ceca (4,2%), Spagna (4,2%), Grecia (4%), Slovacchia (3,8%) e Romania (3,5%).
Nella spesa relativa al numero degli studenti, calcolata utilizzando come unità di misura lo standard del potere d'acquisto, che tiene conto dei diversi livelli di costo della vita, l'Italia si situa al quattordicesimo posto, con una spesa pari a 5.908, dato più basso della spesa media Ue e molto inferiore rispetto a quello di paesi come Austria e Danimarca (8.000), Giappone (7.100), USA (10.600).
Speriamo almeno che i pochi non siano spesi troppo male.

20-01-2009

 
L'ultima del ministro Brunetta
“Se uno fa il professore, , il burocrate, l’impiegato al catasto si vergogna di dire quello che fa. Se invece dice al figlio: faccio il tornitore alla Ferrari lo dice con il sorriso, con orgoglio e dignità”
(da “La Repubblica” 12 gennaio 2009).

L'ultima boutade del ministro Brunetta -che ci piacerebbe ignorare sdegnosamente, ma che merita invece attenzione proprio per il pulpito da cui proviene- è uno stimolo a dare una sbirciatina dal buco della serratura per carpire l'immaginario diffuso relativamente ai pubblici dipendenti, a partire dagli insegnanti, che non sarebbero in grado di raccontare con dignità e orgoglio ai figli che cosa fanno.
Li vediamo osservare preoccupati i loro figli e chiedersi se davvero si vergognano del loro lavoro e se si sentirebbero più forti e solidi con un genitore tornitore alla Ferrari. E in questo caso, sarebbe merito del mansionario del tornitore o della mitizzata Ferrari?
E poi la loro crisi dipenderebbe dal lavoro del genitore insegnante –attività, come è noto, dai contenuti fumosi ed equivoci- o dalla scuola che è obiettivamente difficile possa reggere al paragone con la Ferrari?
Pure sembrerebbe lapalissiano affermare che gli insegnanti insegnano: certe materie, a certe fasce di studenti, in scuole alle quali sono assegnati con una trafila trasparentissima e tutta impiegatizia, in cui il numero di figli e dei familiari a carico contano più dei meriti professionali, delle esperienze e dei titoli. Alcuni lo fanno bene, altri meno bene, altri ancora in maniera addirittura eccezionale.
Ma ciò che è davvero inquietante è che il ministro praticamente dichiari di non sapere come riempiono il loro tempo gli insegnanti quando sono liberi da problemi -veri o falsi- di salute e non sono in preda a crisi di assenteismo (ma questo è oggetto di un'altra edificante esternazione dello stesso ministro).
Certo le novità in serbo per gli insegnanti devono essere proprio inquietanti se hanno bisogno di essere precedute da simili premesse volte al discredito e all'umiliazione di un'intera categoria!

19-01-2009

 
Allegria!
Stupisce e offende la prontezza con cui l'attuale governo ha ovviato alla svista che, nella generale ventata di tagli che resta la principale arma con cui si fronteggia una crisi dalle innumerevoli facce, aveva ridotto di 133 milioni di euro il finanziamento alle scuole private.
Il ripristino, praticamente immediato, è stato di 120 milioni di euro e poco conta che sia a favore del ministero dell'istruzione senza precisi vincoli di destinazione, che restano competenza del ministro Gelmini: le rassicurazioni alle gerarchie cattoliche (“potete dormire su quattro cuscini” avrebbe detto il sottosegretario Vegas) e la tempistica, coincidente con la minaccia di mobilitare le scuole private, sono messaggi molto chiari.
Ci conforta che, almeno questo, rimanga un canale di comunicazione aperto ed efficace, mentre agli studenti, che pure hanno animato una vivace protesta cui è stata riservata un’attenzione assai scarsa, si lanciano ammiccamenti mediatici su youtube, con una comunicazione unilaterale e all'insegna dell'imbonimento. A chi conta si danno risposte nei fatti e solo dopo li si rassicura , agli altri ci si limita alle parole e a una disponibilità tutta teorica, con i conti serrati.
Colpiscono anche le solerti dichiarazioni di membri dell'opposizione che hanno manifestato un'indignazione pari, se non superiore, a quella mostrata per i tagli di 456 milioni alle scuole statali, in nome -dicono- della libertà di scelta delle famiglie di educare i figli secondo le proprie convinzioni etiche e religiose, con buona pace dell'art. 33 della Costituzione e senza alcuna considerazione per i giovani cittadini italiani –quelli che sono oggi nelle nostre scuole- a vedere riconosciuto il loro diritto allo studio in una scuola di qualità.
Ma non ci era stato detto che gli istituti privati eserciterebbero una salutare concorrenza ad una scuola statale danneggiata dall'assistenzialismo e che non deve competere per conquistare la sua utenza?
Ci sembra che i ruoli sono ormai invertiti, con una scuola statale lasciata allo sbando, sulla quale non si investe ma si taglia senza progetti o prospettive di futuro, e una scuola privata assistita sia con finanziamenti diretti sia abbassando la qualità del servizio pubblico e alimentando una domanda sociale, che ha ormai bisogno di tempi prolungati e di servizi di supporto, cui la scuola statale può sempre meno dare risposta. Un sostegno che va ben oltre le logiche e le dinamiche del mercato.
E allora, per dirla con un vecchio presentatore di un'Italietta che forse non immaginava di arrivare a tanto, “Allegria!” e magari possiamo aggiungere “Chi non brinda con me, peste lo colga” perché l'ottimismo e il consumo restano oggi i cardini del potere e non vanno intaccati per nessuna ragione, senza rinunciare neppure a crediti per l'al di là e a ben più concreti sostegni politici per il di qua.



09-12-2008

 
Integrazione versus Segregazione
L'emendamento della Lega, approvato dalla maggioranza, che prevede l’istituzione di classi d'inserimento per bambini e ragazzi con uno scarso livello di conoscenza della lingua italiana, è solo apparentemente uno strumento utile all'integrazione scolastica degli studenti stranieri.
A parte il fatto che sarà difficile tradurlo in pratica, poiché in un contesto generale preoccupato solo di ridurre, per ragioni economiche, le classi e gli organici, difficilmente si potrebbe contare sulla flessibilità organizzativa e sulla disponibilità di personale competente e preparato sulla didattica del recupero.
Inoltre, con quali criteri sarebbero istituite le classi? tenendo conto dei livelli di competenza linguistica, dell'età degli studenti, delle classi di riferimento? Ciascuno di questi criteri apre a implicazioni didattiche e psicologiche che non possono essere sottovalutate se si punta a percorsi di apprendimento e non a parcheggi per non disturbare gli altri, i normali.
Tanto più difficile è se si tiene conto che in Italia sono presenti bambini e ragazzi di oltre 160 diverse appartenenze etniche e linguistiche e, per la loro distribuzione territoriale, in alcune scuole sono gli studenti italiani a costituire la minoranza: sarebbero per loro le classi differenziali?
Di fronte a provvedimenti come questo, ancora una volta, si ha la sensazione che un perverso buon senso minimalista si limiti ad identificare i problemi per appiattirsi su soluzioni solo apparentemente semplici e che in realtà costituiscono a loro volto un problema.
Certo, nelle scuole italiane si deve conoscere e praticare la lingua italiana.
Certo, tutti gli studenti devono possedere solide competenze linguistiche e le carenze devono essere colmate e questo vale anche per gli italiani. Ma nulla autorizza a creare separazioni e a ripercorrere strade che la nostra scuola ha da tempo abbandonato, come quella delle classi differenziali.
Distinguere, separare, segregare può avvenire per tante ragioni: di lingua, d'etnia, d'intelligenza, di classe sociale, per il fatto di essere maschi o femmine.
La scuola italiana ha da tempo intrapreso la strada, indicata dalla Costituzione, dell'integrazione e del rispetto delle differenze, una strada difficile che considera tutti uguali senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali e si impegna a dare a ciascuno ciò di cui ha bisogno e a rimuovere gli ostacoli -tutti gli ostacoli- che limitano la libertà e l'eguaglianza dei cittadini e ne impediscono il pieno sviluppo. L’assunto di base è uno solo: non può esserci qualcuno più uguale degli altri.
E’ un principio che in anni ormai lontani ha portato a superare, con la L. 517/1977, le classi differenziali e che oggi fa riferimento all'autonomia scolastica. Corsi di rafforzamento delle abilità linguistiche, percorsi modulari, gruppi di approfondimento: sono questi gli strumento attraverso cui rendere reale questo diritto attraverso iniziative che procedano parallele e non separate rispetto all’ attività didattica ordinaria, poiché è nelle classi di appartenenza che si realizza la socializzazione e l'integrazione dei bambini che è poi il motore più efficace per favorire anche l'integrazione comunicativa.

01-10-2008

 
Schedare Rom e Sinti
E' proprio sicura, signora ministro, che sia questa la strada per portare più bambini a scuola? Abbiamo parecchi dubbi, innanzitutto perché i Rom e i Sinti sono solo una piccola percentuale di quel 8 per cento di evasione scolastica cui si attesta la media nazionale, ma che arriva anche al 15 per cento in alcune città del sud, per ragioni che non hanno nulla a che vedere con la presenza di Rom.
Nella sua dichiarazione, riportata dalla stampa, dice “"Non giudico la proposta di Maroni, ma se può servire ad obbligare qualcuno a mandare i figli a scuola, allora ben vengano le impronte". E sullo spiraglio linguistico del qualcuno passa l’accettazione di una pratica simbolica che viola le garanzie della dignità personale e dell’uguaglianza perché relegata a un gruppo etnico e in particolare ai bambini di quel gruppo, anello debole e facile da colpire.
Sullo sfondo rimane il problema dello sfruttamento dei minori (tanti minori, di tutte le etnie), la negazione dei loro diritti, tra cui quello all’infanzia e alla formazione. Diritti che possono infastidire molti adulti, perché a scuola si imparano i linguaggi delle relazioni sociali, si pratica la convivenza tra soggetti cui si riconosce sia il diritto alla diversità sia il dovere del dialogo per scegliere consapevolmente come vivere la propria vita e, in questo caso, come coniugare essere Rom e essere cittadini.
Sempre sullo sfondo, si stagliano un po’ tristemente quelle buone pratiche di accoglienza dei Rom realizzate in questi anni in molte scuole e da molti insegnanti di buona volontà, da relegare in archivio proprio quando servirebbero.
E allora discutiamo su come realizzare l’obiettivo di mandare a scuola più bambini, non solo Rom ma anche quelli delle fasce più deboli e deprivate, dei quartieri malavitosi, i nostri piccoli italiani di serie B, poiché il problema va ben oltre la schedatura e le impronte digitali.

01-07-2008